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PERCHE' GLI IMMIGRATI NON SI INTEGRANO?

Immagine del redattore: Giada GGiada G

È dal lontano 2016 con l’esplosione delle problematiche relative all’immigrazione in Italia, estremizzate con grande maestria dai media, che si sente parlare di integrazione. Oltre alle problematiche politiche ed economiche del nostro Paese, che al momento non voglio trattare, sono sorte problematiche sociali che hanno posto solide basi per quello che è il razzismo odierno. E’ da molto prima del 2016 che i migranti migrano, ma quell’anno si è rivelato decisivo soprattutto per via dell’esposizione mediatica che si è data a questo fenomeno.

Parlo oggi di integrazione, con questo articolo vorrei portare alla luce due punti di vista che non si capiscono perché non comunicano.


Il termine integrazione viene spesso frainteso dalla nostra popolazione eurocentrica ed inteso come sinonimo di assimilazione. L’immigrato per essere integrato dovrebbe abbandonare completamente la sua cultura, o almeno praticarla in privato e senza lasciarne traccia. Lo straniero, per non dare fastidio a nessuno e per dimostrare la volontà di vivere nella nostra Terra e la gratitudine verso essa, dovrebbe sapere, capire e assimilare tutti gli aspetti della cultura dalla lingua, al vestiario, all’alimentazione e persino i dogmi religiosi, meglio se cambiasse anche l’aspetto fisico. La donna con il velo dovrebbe abbandonarlo e cominciare ad indossare jeans attillati, gli indiani dovrebbero smetterla di appiccicarsi cose sulla fronte, e i ghanesi dovrebbero smetterla di parlare nella loro lingua in pubblico visto che non si può capire quello che dicono (oh wait, stanno parlando inglese!). Le manifestazioni extraculturali vengono apprezzate solo se in contesti chiusi e in tempi dedicati, perché a tutti piace andare alle feste multietniche e conoscere un po' delle tradizioni altrui, assaggiare cibi diversi, farsi fare l’hennè e fumare il narghilè; apprezziamo queste manifestazioni limitate perché mettono ben in evidenza che si tratta del diverso, di tradizioni diverse che non si fondono con quella italiana, ma non ci rendiamo conto di vivere in una meravigliosa festa multietnica che non viene considerata e tanto meno apprezzata. Abbiamo forse paura che ci portino via ciò che è nostro, perché l’idea di stato che abbiamo, è quella di territorio chiuso e dal tessuto sociale omogeneo e finché lo straniero non diventa un filo perfetto di questo tessuto non può venire accettato.

Consideriamo questo territorio come proprietà dei nativi e temiamo di perdere le nostre tradizioni accogliendo quelle altrui. La sensazione è sempre quella di uno sconosciuto che entra in casa nostra senza chiedere, e utilizza la nostra copertina preferita, cammina con le scarpe sul tappeto di nonna, si siede sul nostro posto e beve dal nostro bicchiere personalizzato. Mi da fastidio solo a scriverlo, la completa invasione dei miei spazi, l’irruzione nella mia comfort zone senza preavviso. Eppure se lo avesse fatto un amico che in quel momento aveva bisogno di aiuto lo avrei accolto, gli avrei spiegato che la mia copertina non si tocca e forse con il tempo gli avrei pure lasciato il mio bicchiere. Dello sconosciuto si ha paura e ci si chiude, ci si mette sulla difensiva, ed è per questo che bisognerebbe cercare di conoscerlo e di capirlo per andare d’accordo; l’integrazione, e lo ribadirò più tardi, non è un processo unidirezionale, è un movimento che parte da ambo i lati, e non ha un obiettivo fisso, ma il risultato si trova in un continuum di opzioni diverse.


Dall’altra parte ci sono gli immigrati, che amano il loro paese d’origine, ma sono costretti a spostarsi per questioni politiche ed economiche che non permettono uno stile di vita al pari di quello Europeo, perché mancano i soldi, i diritti, la giustizia e spesso si va a perdere anche la dignità umana. Si trovano in un paese che non è il loro e non capiscono perché vengano esclusi o emarginati, non vogliono rubarci nulla e tanto meno influenzarci e soprattutto non capiscono perché siamo così infastiditi dalla loro cultura. Si sentono dire di “non volersi integrare” solo perché non vogliono abbandonare le loro tradizioni e quello con cui sono cresciuti. Eppure si impegnano ad imparare la lingua, a capire le usanze, a rispettare gli altri e come tutti “noi” e forse più di noi, lavorano e pagano le tasse. Ovviamente, essendo emarginati, il processo di apprendimento dall’esterno può essere lento e presentare delle lacune, cosa che potrebbe essere risolta semplicemente cercando di essere più altruisti nel condividere la nostra cultura, nel comunicare quelli che per la nostra visione sono comportamenti “errati” in modo che lo straniero capisca almeno le nostre ragioni.


Ci sono degli aspetti che possono darci fastidio come il pakistano che sa costantemente di cipolla, i marocchini che per comunicare gridano da una parte all’altra della strada neanche fossimo a Marrakesh, gli albanesi che vogliono fare rissa solo perché sei vestito di un colore che non gli piace, ma più di ripetere che si tratta di generalizzazioni e che comunque tutti indipendentemente da razza, etnia e provenienza abbiamo i nostri difettucci, non ci posso fare niente. Vorrei che di tutto ciò che ho detto vi portaste a casa quello che è il vero concetto di integrazione un’interazione positiva (Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, 2000) basata sulla parità di trattamento e sull’apertura reciproca tra società ricevente e cittadini immigrati. Ancora più semplicemente, l’integrazione può essere definita come il processo del divenire una parte accettata della società (Penninx e Martiniello, 2007), non dimenticando la responsabilità di noi società ospitante (in questo caso, ma che è stata e sarà ancora una società di migranti) che l’integrazione dei migranti è anche una nostra responsabilità.





 
 
 

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