È durante i primi anni delle scuole secondarie che cominciamo a sentire quella sgradevole sensazione di ansia, disagio, senso di colpa... Insomma, ci sono tanti modi diversi per descriverla. È ciò che proviamo quando sentiamo di non sfruttare il nostro tempo al massimo, ci ripetiamo che dobbiamo darci da fare subito per costruirci un futuro di successo e che il tempo perso non torna più. Quel periodo in cui si era costantemente combattuti fra le uscite con la compagnia e lo studio e ci si sentiva in colpa in qualsiasi caso. Ci hanno insegnato che dobbiamo lavorare duro, porci degli obiettivi e fare di tutto per raggiungerli.
Cerchiamo di ottimizzare, di essere efficienti perché sì, perché un giorno ci sveglieremo e diremo “ne è valsa la pena”.
C’è chi, però, aspetta questo giorno per sempre. Altri invece si svegliano e si chiedono che cosa si sono preclusi nel passato, che cosa hanno trascurato per rincorrere questo efficientismo che, parlandoci chiaro, nel 98% dei casi viene inteso come successo lavorativo, posizioni di potere, soldi e fama.
Ma quando si arriva al top? Quando si raggiunge il massimo delle proprie aspettative su se stessi? Siamo capaci di essere così razionali, così calcolatori... ma a che scopo?
Ecco, la vita è fatta sempre di piccoli obiettivi: appena ne raggiungiamo uno, rimaniamo soddisfatti per un breve periodo di tempo e poi pensiamo già al successivo. Quant’è vero il detto “chi si accontenta gode”. Certo, più obiettivi raggiungiamo più il nostro ego si gonfierà, ma c’è da chiedersi se ogni traguardo raggiunto implica anche uno step in avanti verso il più ambito dei trofei: la felicità.
Siamo così razionali, ma così razionali che tutto ciò che facciamo segue una logica completamente irrazionale nel rincorrere qualcosa di inesistente, nell’essere efficienti allo scopo di poterlo essere ancora di più e di produrre in modo da produrre ancora di più; in questa irrazionalità il processo diventa il fine stesso periodicamente.
Ciò non significa assolutamente che dovremmo smettere di porci degli obiettivi e lasciarci andare ai piaceri istantanei e fuggevoli, ma è proprio qui che sta il paradosso. La società nella quale siamo cresciuti e abbiamo avuto la nostra prima socializzazione dà valore al sacrificio che porta al successo. Chi non procede seguendo determinati ritmi ed è in ritardo rispetto alle aspettative generali che si hanno di un individuo in una determinata età viene considerato un fallito. La sensazione di disagio che proviamo è causata dal fatto che, se in qualche modo siamo consapevoli di non poter mai raggiungere la piena soddisfazione, siamo spinti ad andare sempre avanti, a combattere con lo stress e la mancanza di tempo, anche a scapito di relazioni e sentimenti e, allo stesso tempo, ci sentiamo legati a questo sistema da cui sembra impossibile fuggire.
Bronnie Ware, nel suo libro “Vorrei averlo fatto”, cita tra i primi cinque più grandi pentimenti dichiarati sul letto di morte proprio il “vorrei non aver lavorato così tanto”. Certo, ognuno ha valori e priorità diverse, spesso però ci accorgiamo troppo tardi del vero ordine delle cose. L’intenzione, troppo spesso, non coincide con i risultati e proprio per questo è importante ordinare i propri valori ed equilibri al fine di evitare di accorgersi troppo tardi che tutti gli sforzi e la fatica sono stati fatti inutilmente rispetto a quelli che sono i momenti che veramente ci rendono felici. Sembra quasi che la concezione dei concetti di razionale e irrazionale si sia invertita. Tutte le azioni guidate dai sentimenti, che noi definiamo “irrazionali”, quantomeno hanno uno scopo ben preciso, anche se le conseguenze non valutate possono essere diverse. Mentre, per quanto riguarda il mondo preciso delle azioni calcolate, esse forse hanno meno margine di errore, ma di sicuro non perseguono scopo finito.
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