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Da "persone di colore" a "BLACK LIVES MATTER": sappiamo ciò che diciamo? (pt. 2)

Immagine del redattore: Giada GGiada G

Aggiornamento: 19 lug 2020

Nell’ultimo mese abbiamo sentito molto parlare del movimento #blacklivesmatter: si è parlato della sua nascita, sviluppo, obiettivi, modalità e diffusione. Il nome stesso del movimento è stato messo in discussione, ed è proprio su questo che vorrei soffermarmi.

Noi europei siamo abituati a importare molto dal nord America. Questo agglomerato di nazioni ci sembra sempre un passo avanti, un obiettivo sempre in movimento a cui ci si può avvicinare, ma che sembra impossibile raggiungere.


È così che, quasi inconsapevolmente, inglobiamo pezzi di cultura che non ci appartengono e che, a volte, tendono a stridere con la nostra realtà. Basti pensare al termine “di colore”: in pochi, i più curiosi, sanno che deriva dall’inglese americano “coloured”. Utilizziamo il termine “di colore” per sostituire le parole “nero” o “negro”, che di per sé non avrebbero nulla di male, nulla di diverso da “bianco” o “bianchiccio”. Invece, noi italiani, si sta attenti a non dire “nero” davanti a un nero, quasi fosse un’offesa. “Di colore” ci sembra un termine più neutro, più accettabile, ma la realtà è che la sua accezione in lingua originale ha un significato estremamente negativo e offensivo. Basti pensare anche all’italiano: cosa significa “di colore”? Il rosa, l’olivastro, il bianco e l’ocra non sono colori? I bianchi non riflettono la luce e quindi non sono colorati?

Questo termine non fa altro che aumentare la distinzione fra l’ingroup "bianco" e l’outgroup "tutto ciò che bianco non è"; divide nettamente i due gruppi, uno superiore e uno inferiore, cancellando le sfumature e rendendo la parità una meta irraggiungibile. Ecco, spesso ci dimentichiamo di quanto possa essere potente la lingua nel plasmare anche il nostro modo di pensare, ed è proprio per questo che diversi sociologi sono partiti dallo studio della stessa per cercare di determinare i valori di una determinata cultura, è per questo che quando si vuole imparare una nuova lingua è importante conoscere anche la cultura dei parlanti e, viceversa, per capire la cultura è necessario conoscere la lingua. Questo è anche il motivo per cui molti attivisti femministi o della comunità LGBTQ+ lottano per l’introduzione di un genere neutro o per l’utilizzo degli asterischi quando si parla ad/di un gruppo misto (altra tematica su cui varrebbe la pena riflettere, ma non in questo spazio).

Ormai vi starete chiedendo cosa c’entra tutto ciò con il #blacklivesmatter. Ebbene, c’entra perché abbiamo importato dagli USA dei termini, dei pattern e una lotta che, di base, non ci appartengono e che potrebbero risultare a scapito di chi stiamo cercando di difendere. In Europa, o perlomeno in Italia, c’è, forse ancora per poco, una netta distinzione fra le varie etnie: non sono tutti neri ma ci sono i brasiliani (che, ahimè, comprendono tutto il Sudamerica - Senhorita, tu parler brasileiro?), i marocchini (tutto il Nordafrica), i neri (ma quelli nerineri, che è impossibile che si abbronzino, dell’Africa), i cinesi (che perlomeno sono gialli), e i pakistani/indiani (che ancora non si capisce bene la differenza). Il riconoscere che non esistono differenze solo tra noi e loro, ma tra noi - questo gruppo, quello, e quell’altro ancora - non impedisce a un gruppo di sentirsi migliore, ma nemmeno incoraggia questa logica dell’in- e outgroup, così presente invece negli Stati Uniti. L’utilizzo della parola “black” non è di per sé offensivo, ma temo possa instaurare, nelle menti degli italiani e degli europei, meccanismi che per fortuna non ci appartengono. I problemi di razzismo ci sono anche in Europa, eccome se ci sono, discriminazioni da parte della polizia, come dei comuni civili ce ne sono, è innegabile. Ma se la situazione non è tragica come quella statunitense, un motivo c’è. Sono contesti completamente diversi: da una parte, i neri sono stati importati come merce e schiavizzati, dall’altra, sono arrivati in cerca di aiuto e si sono dimostrati sia demograficamente sia come forza lavoro una grossa risorsa. Da una parte il razzismo nasce dal basso, dal popolo, dall’altra ci sono le leggi razziali. Trovo quindi utile utilizzare l’hashtag #blacklivesmatter solo se si vuole dare sostegno al movimento americano e tenendo ben presente qual è il contesto socioculturale a cui ci si riferisce. Ma qui in Italia, dove le sfumature di marrone sono ancora tante, bisogna tenersele strette.

Dovremmo quindi utilizzare l’hashtag #alllivesmatter? Potrebbe essere utile, ma vorrebbe dire darla vinta a coloro, quei bianchi, che si sentono esclusi da ciò e che non accettano che ci si riferisca alle vite dei neri, non perché valgono di più, ma perché sono quelle in pericolo ora. Per dare un contentino a codesti, basterebbe aggiungere un "also": #alsoblacklivesmatter. Meglio... no? Così è più evidente che il fatto che la vostra vita conti viene dato per scontato.

Pensandoci bene, se non fosse per questi malpensanti, preferirei di gran lunga utilizzare #alllivesmatter perché è più inclusivo: dal neronero, all’albino, al pakistano (ma il Bangladesh è in Pakistan?), al cinese, al russo, all’italiano, al marocchino e, per finire, al colombiano. L’importante è essere tutti uniti... uniti contro i francesi.




 
 
 

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