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BLACK LIVES MATTER: tra critiche e aspettative. È un movimento controproducente? (pt. 1)

Samia K

Il movimento sociale “Black Lives Matter” (BLM) nacque come hashtag nel 2013, in uno dei molti segni di protesta contro l’uccisione del 17enne afroamericano Trayvon Martin in Florida, da parte dell’agente di polizia George Zimmermann. Quest’ultimo venne, infine, assolto e il suo atto fu dichiarato auto-difensivo, nonostante il giovane ucciso non fosse armato. Da questo momento in particolare, la sensibilità e l’attenzione verso l’abuso di potere dei poliziotti americani contro individui afroamericani – molte volte non armati – crebbe in modo considerevole. Il numero di casi simili a quello di T. Martin, però, non scese, ma nemmeno le proteste. Il movimento BLM è tornato a farsi sentire più che mai dopo la brutale uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di Derek Chauvin – atto di cui tutti abbiamo sentito parlare e a cui abbiamo assistito, attraverso il video virale che lo raffigurava.


Come per tutti i movimenti sociali, anche BLM è stato ed è tuttora soggetto a critiche. La principale vede il problema più grande nel nome del movimento, che letteralmente si traduce con “le vite dei neri contano”. Un’alternativa a questo nome, visto da alcuni come discriminatorio nei confronti di chi non è nero, è “All Lives Matter” (tutte le vite contano). La discussione riguardo a questo punto si è rivelata parecchio accesa, con i sostenitori di BLM che ripudiano questa alternativa, per il semplice motivo che “se una

parte del corpo è ferita, bisogna dare cure e attenzioni a quella specifica parte danneggiata perché possa guarire, non a tutto il resto del corpo”. Effettivamente, se uno ci pensa, non ha molto senso attaccare BLM dicendo che discrimina le altre etnie o sostenendo, addirittura, che il movimento stesso incita la discriminazione e la divisione tra etnie: la discriminazione c’è già, la divisione esiste già ed è incentivata da un sistema (quello americano) che è inerentemente razzista, non ancora del tutto purificato dalla segregazione razziale che vigeva non molti anni fa. Il razzismo in America non è una leggenda, esiste veramente ed esiste già da tempo: ne sono prova tutti gli assassinii di afroamericani non armati da parte di poliziotti che giudicano un nero come un potenziale criminale solo perché è nero, o le numerose chiamate alla polizia effettuate da donne bianche di mezza età (le famose “Karen”) contro persone nere, anche bambini, dicendo che si sentono minacciate, quando i video dimostrano chiaramente che sono loro quelle che approcciano aggressivamente la persona nera. E gli esempi sono infiniti, molti di essi documentati: basta cercare. Non è quindi il movimento BLM che causa la discriminazione fra etnie in America.


Un altro punto di critica di BLM è indirizzato verso le modalità di protesta utilizzate dai

sostenitori del movimento. Specialmente dopo la morte di George Floyd, alcuni gruppi hanno protestato bruciando e distruggendo interi edifici. Nonostante la maggior parte delle proteste furono pacifiche (ma comunque interrotte da poliziotti in uniforme militare, che sparavano gas lacrimogeni e proiettili di gomma verso la folla), quelle che fecero più scalpore e che ebbero più copertura mediatica furono quelle violente, comprensibilmente. Ora, ognuno può avere la propria opinione su queste particolari modalità di protesta, ma la vera domanda è: esiste un modo giusto per protestare? Trovo particolarmente interessante questo concetto (di cui non ricordo, purtroppo, la fonte): quando si protesta è perché non si è d’accordo con qualcosa, è perché si vuole cambiare un sistema. Ciò significa che, in qualsiasi modo la protesta venga condotta, non andrà mai bene a quel particolare sistema, proprio perché si sta andando contro ad esso.


Che si sostenga o meno il movimento BLM e le sue modalità, poco dubbio c’è sulla questione del razzismo in America. A chi sostiene che “All Lives Matter”, non c’è dubbio nemmeno su questo: ma quella frase diventa vera solo quando anche la vita di chi è sistematicamente oppresso (che siano i neri, i latinoamericani, gli arabi, gli asiatici, i rifugiati, ecc...) conterà veramente. Quindi, sarebbe meglio concentrarsi sulle ferite sanguinanti della società, mettendo da parte il proprio orgoglio delicato e aprendo gli occhi sulle dinamiche malate della realtà in cui viviamo. Istruendoci e informandoci su ciò che ci sta intorno, guadagnando giusto un po’ di consapevolezza in più.

Sperando, ovviamente, che tutto questo non diventi solo un hashtag che fu in trend sui vari social...





 
 
 

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